Preiti bloccato a terra e la pistola poco distante (Ansa)
ROMA - Il telefonino è rimasto muto per due giorni prima dell'azione. La pistola è stata trapanata da un esperto e non c'è alcuna possibilità di risalire alla sua origine. Sono gli ultimi due dettagli che mancavano per comporre il puzzle dell'inchiesta su Luigi Preiti, l'uomo che il 28 aprile scorso - giorno del giuramento del governo guidato da Enrico Letta - sparò contro i carabinieri in servizio di vigilanza davanti a Palazzo Chigi,ferendo gravemente il brigadiere Giuseppe Giangrande e in maniera più lieve il suo collega Francesco Negri. E adesso i pubblici ministeri si accingono a chiedere per lui il giudizio immediato.
Preiti in caserma (foto Ansa)
Si chiude la fase istruttoria e chissà se sarà il processo la sede per fugare tutti i dubbi che ancora segnano questa vicenda. La difesa appare orientata a fare in fretta, tanto da aver rinunciato anche al ricorso al tribunale del Riesame contro l'ordinanza di custodia cautelare. L'accusa mette insieme i pezzi, ma proprio la decisione di arrivare subito in aula sembra escludere l'eventualità che l'indagine si allarghi a chi potrebbe aver aiutato, o quantomeno sollecitato l'uomo a colpire. E questo nonostante gli interrogativi tuttora aperti. E alimentati proprio dalle relazioni degli investigatori dell'Arma consegnate al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e al sostituto Antonella Nespola secondo cui Preiti e i suoi oggetti sembrano sbucati improvvisamente dal nulla.
La Beretta «cancellata». Sette colpi esplosi, nove cartucce nella borsa. Le analisi sull'arma utilizzata dall'attentatore condotte dagli investigatori del Ris confermano la ricostruzione dei primi momenti, ma consegnano dettagli inediti sulla «punzonatura». La pistola è una Beretta 7,65 modello 70. Per cancellare i numeri di matricola è stato usato un trapano e nella relazione si specifica che a farlo è stata una mano esperta, quella di uno specialista. Non ci sono «sbavature» o striature nelle impronte lasciate dall'arnese. Non solo.
Ancor più interessante è il dettaglio che esclude la possibilità di ricostruire la storia della pistola. È stato infatti scoperto che è stato raschiato via anche l'anno in cui l'arma è passata al banco di prova. Una modalità generalmente utilizzata negli ambienti criminali. E questo sembra avvalorare l'ipotesi che Preiti si sia procurato la Beretta proprio in Calabria, dove viveva da due anni, e non al mercato clandestino di Genova dove invece aveva raccontato di averla acquistata circa quattro anni fa. Nelle banche dati non è registrato alcun episodio in cui sia comparsa la stessa arma e questo impedisce di fare qualsiasi tipo di comparazione o comunque di avere qualche dato in più sulla provenienza.
Il cellulare «muto». Anche il telefonino utilizzato da Preiti ma intestato a un cittadino dello Sri Lanka, non ha fornito elementi utili su eventuali complici, ma dimostra ulteriormente la meticolosità nella preparazione dell'agguato avvalorando la possibilità che le fasi cruciali siano state studiate da un professionista. Il cellulare è rimasto infatti «muto» nei due giorni precedenti l'attentato e l'esame dei tabulati degli ultimi due anni non ha fatto emergere alcun nome interessante. Possibile che, pur vivendo a Rosarno, Preiti non abbia parlato con nessuno dei suoi concittadini? Possibile che una persona capace di comprare una pistola al mercato clandestino, come lui stesso ha dichiarato, non abbia poi avuto altri contatti strani o sospetti? L'ipotesi è che in realtà quel telefono fosse «dedicato», cioè utilizzato soltanto in maniera pulita proprio per non lasciare altre tracce.
L'obiettivo istituzionale. Era stato l'esame dei filmati a confermare l'intenzione di Preiti di uccidere uno dei carabinieri e non, come aveva inizialmente sostenuto «un politico perché loro stanno bene e la gente muore di fame». Le testimonianze raccolte in queste settimane hanno confermato che cercò per ben due volte di entrare in piazza Colonna attraverso i varchi vigilati dalla polizia senza riuscire. Passare attraverso il terzo era la sua ultima possibilità per arrivare a Palazzo Chigi. Quando è stato fermato si è messo in posizione di tiro e ha fatto fuoco, determinato a colpire alla testa proprio l'uomo che indossava la divisa dell'Arma.