Ora basta», dice il giudice Elisabeth Arntzen alle cinque e mezzo del pomeriggio. Basta, signor Breivik: perchè lei non è pazzo, è un terrorista, un criminale, uno che ha ammazzato 77 norvegesi; che si merita i 21 anni di carcere, il massimo della pena, e nemmeno adesso mostra pietà. Basta, e la presidente della Corte dai capelli candidi e occhi azzurri gli spegne il microfono. Solo chi è vicino ad Anders Breivik può sentire quel che sta leggendo: «Voglio porgere le mie scuse ai militanti nazionalisti in Norvegia e in Europa per non aver ucciso molte più persone...». Fa il solito saluto a braccio teso e pugno chiuso, gli mettono le manette, lo portano via. Nessuno farà appello. Ora basta, per sempre.
Sette ore e mezzo per leggere la sentenza. Ma già alle dieci del mattino Elizabeth Arntzen aveva anticipato come sarebbe finita. Non è pazzo, Breivik, e passerà 21 anni in una cella. Nel 2033, quando avrà 54 anni, potrebbero scattarne altri cinque, e poi altri ancora: in Italia sarebbe ergastolo. Vestito scuro, giacca stretta a tre bottoni, camicia bianca, il nodo grosso della cravatta grigia, barbetta a striscia ben curata, Breivik non si è trattenuto. «Sono soddisfatto», sussurra a Geir Lippestad, l’avvocato che gli sta accanto: «E’ quello che volevo». Temeva la dichiarazione di follia: «Non sono un matto, io sono un Cavaliere dei Templari che difende l’identità e l’integrità della Norvegia».
Davanti al Palazzo di Giustizia, c’è una folla di telecamere. I parenti delle vittime, i ragazzi che si son salvati dal massacro sull’isoletta di Utoya, sono in aula. Sull’ultimo dei tre gradini che portano al palazzo hanno lasciato una rosa, una sola rosa rossa. Aspettando la sentenza, a cinque minuti a piedi, nei giardini della Cattedrale, altri ragazzi hanno infilato nel prato un enorme cuore rosso, i mazzi di fiori attorno. Al secondo piano, nell’aula 250, il giudice Elizabeth sta leggendo le sue 90 pagine ormai da due ore. «Una delle prove più drammatiche della storia norvegese», come scrive il quotidiano «Aftenposten».
Quando Breivik entra in aula mancano cinque minuti alle dieci. C’è silenzio, solo il rumore degli scatti dei fotografi, lui che resta impettito, il sorriso che diventa smorfia, i bisbigli con l’avvocato Lippestad. Guarda dritto davanti a sé, nel vuoto, finché entra la Corte e il giudice Arntzen dà l’ordine: «Togliete le manette all’imputato». Subito diventa un ghigno soddisfatto, quella smorfia di Breivik. Non è matto, ha stabilito la Corte. Ma poi, quando a leggere le motivazioni della sentenza è Arne Lyng, l’altro giudice, il ghigno e i sorrisi spariscono, lo sguardo di Breivik si fa gelido, comincia a versarsi acqua da una caraffa e in un’ora la svuota. Il giudice sta ricostruendo la strage.
Un elenco che sembra non finire mai. Nomi, date di nascita, come li ha ammazzati. «Uccisioni avvenute in modo particolarmente crudele, e questa è un’aggravante. Alcuni ragazzi paralizzati dal terrore, altri che si fingevano morti e pregavano: invano». Erano in 564 sull’isoletta di Utoya, al campo estivo dei giovani laburisti. 69 i massacrati. Gli undici ragazzi fucilati sul «Sentiero dell’Amore», i tre trovati in acqua, aggrappati a una pietra... In aula i parenti piangono in silenzio, i fazzoletti sulle labbra. I reporter norvegesi hanno occhi lucidi. Breivik è impassibile, la Corte no. «Sospendiamo per quindici minuti».
Quando la presidente Arntzen riprende a leggere le 90 pagine è per spiegare che una strage come quella del 22 luglio 2011 non può trovare spiegazioni solo nella follia: sarebbe forse più comodo, più indolore, più semplice per la società, ma non è così o non è sempre così. Come nel caso Breivik. «Che non è psicotico, non mostra sintomi di schizofrenia, al contrario è una personalità narcisista e antisociale. Quello che dice lo dicono anche altri, anche se non ritengono che il terrorismo sia uno strumento legittimo». L’estremismo di Breivik, «la sua ideologia malvagia», l’hanno portato al terrorismo e alla strage. Non la follia.
Breivik prende appunti, corregge il testo che vorrebbe leggere alla fine, riempie un foglio di crocette nere. Fuori dall’aula i parenti già commentano con sollievo. «Questa sentenza è una liberazione», sta dicendo Unni Marcussen. I sopravvissuti vanno su Twitter: «Siiii, questa merda è finita!», scrive Emma. «La mia vita può ricominciare», risponde Ingrid. Negli stessi momenti il giudice Lyng sta leggendo le ultime pagine e parla proprio di loro, i sopravvissuti: «Chi ha perso la memoria, chi soffre di ansia, di insonnia, apatia, sensi di colpa». Il giudice non lo dice, ma tre non ce l’hanno fatta, si sono suicidati.
Alle quattro del pomeriggio Breivik torna impettito, orgoglioso. Ascolta la ricostruzione di quel pomeriggio. «Aveva messo la bomba al Palazzo del Governo e si stava allontanando con un’altra macchina. Alla radio ha sentito che il palazzo non era crollato, che c’erano stati solo otto morti. Ed è per questo che ha deciso di andare sull’isola. Perchè il suo piano era preciso, dettagliato: la strage». La smorfia diventa di delusione quando la Corte smonta i suoi Cavalieri Templari, il suo esercito inesistente. «Non sono state trovate prove dell’esistenza di questa organizzazione. L’unico responsabile è lui, Anders Breivik».
Che non chiede l’appello, «perchè vorrebbe dire riconoscere la legittimità di questa Corte». E siccome non lo chiedono nemmeno i pm, che invocavano la pazzia, il caso è chiuso. Trond Blattmann, il coordinatore del Comitato 22 luglio, i parenti delle vittime e i sopravvissuti, è sicuro sulla sorte di Breivik: «È stata una sentenza all’unanimità, senza un dubbio. La Norvegia ha regolato i conti con un massacratore, non con un pazzo. Che, vedrete, resterà in carcere tutta la vita...».
Sette ore e mezzo per leggere la sentenza. Ma già alle dieci del mattino Elizabeth Arntzen aveva anticipato come sarebbe finita. Non è pazzo, Breivik, e passerà 21 anni in una cella. Nel 2033, quando avrà 54 anni, potrebbero scattarne altri cinque, e poi altri ancora: in Italia sarebbe ergastolo. Vestito scuro, giacca stretta a tre bottoni, camicia bianca, il nodo grosso della cravatta grigia, barbetta a striscia ben curata, Breivik non si è trattenuto. «Sono soddisfatto», sussurra a Geir Lippestad, l’avvocato che gli sta accanto: «E’ quello che volevo». Temeva la dichiarazione di follia: «Non sono un matto, io sono un Cavaliere dei Templari che difende l’identità e l’integrità della Norvegia».
Davanti al Palazzo di Giustizia, c’è una folla di telecamere. I parenti delle vittime, i ragazzi che si son salvati dal massacro sull’isoletta di Utoya, sono in aula. Sull’ultimo dei tre gradini che portano al palazzo hanno lasciato una rosa, una sola rosa rossa. Aspettando la sentenza, a cinque minuti a piedi, nei giardini della Cattedrale, altri ragazzi hanno infilato nel prato un enorme cuore rosso, i mazzi di fiori attorno. Al secondo piano, nell’aula 250, il giudice Elizabeth sta leggendo le sue 90 pagine ormai da due ore. «Una delle prove più drammatiche della storia norvegese», come scrive il quotidiano «Aftenposten».
Quando Breivik entra in aula mancano cinque minuti alle dieci. C’è silenzio, solo il rumore degli scatti dei fotografi, lui che resta impettito, il sorriso che diventa smorfia, i bisbigli con l’avvocato Lippestad. Guarda dritto davanti a sé, nel vuoto, finché entra la Corte e il giudice Arntzen dà l’ordine: «Togliete le manette all’imputato». Subito diventa un ghigno soddisfatto, quella smorfia di Breivik. Non è matto, ha stabilito la Corte. Ma poi, quando a leggere le motivazioni della sentenza è Arne Lyng, l’altro giudice, il ghigno e i sorrisi spariscono, lo sguardo di Breivik si fa gelido, comincia a versarsi acqua da una caraffa e in un’ora la svuota. Il giudice sta ricostruendo la strage.
Un elenco che sembra non finire mai. Nomi, date di nascita, come li ha ammazzati. «Uccisioni avvenute in modo particolarmente crudele, e questa è un’aggravante. Alcuni ragazzi paralizzati dal terrore, altri che si fingevano morti e pregavano: invano». Erano in 564 sull’isoletta di Utoya, al campo estivo dei giovani laburisti. 69 i massacrati. Gli undici ragazzi fucilati sul «Sentiero dell’Amore», i tre trovati in acqua, aggrappati a una pietra... In aula i parenti piangono in silenzio, i fazzoletti sulle labbra. I reporter norvegesi hanno occhi lucidi. Breivik è impassibile, la Corte no. «Sospendiamo per quindici minuti».
Quando la presidente Arntzen riprende a leggere le 90 pagine è per spiegare che una strage come quella del 22 luglio 2011 non può trovare spiegazioni solo nella follia: sarebbe forse più comodo, più indolore, più semplice per la società, ma non è così o non è sempre così. Come nel caso Breivik. «Che non è psicotico, non mostra sintomi di schizofrenia, al contrario è una personalità narcisista e antisociale. Quello che dice lo dicono anche altri, anche se non ritengono che il terrorismo sia uno strumento legittimo». L’estremismo di Breivik, «la sua ideologia malvagia», l’hanno portato al terrorismo e alla strage. Non la follia.
Breivik prende appunti, corregge il testo che vorrebbe leggere alla fine, riempie un foglio di crocette nere. Fuori dall’aula i parenti già commentano con sollievo. «Questa sentenza è una liberazione», sta dicendo Unni Marcussen. I sopravvissuti vanno su Twitter: «Siiii, questa merda è finita!», scrive Emma. «La mia vita può ricominciare», risponde Ingrid. Negli stessi momenti il giudice Lyng sta leggendo le ultime pagine e parla proprio di loro, i sopravvissuti: «Chi ha perso la memoria, chi soffre di ansia, di insonnia, apatia, sensi di colpa». Il giudice non lo dice, ma tre non ce l’hanno fatta, si sono suicidati.
Alle quattro del pomeriggio Breivik torna impettito, orgoglioso. Ascolta la ricostruzione di quel pomeriggio. «Aveva messo la bomba al Palazzo del Governo e si stava allontanando con un’altra macchina. Alla radio ha sentito che il palazzo non era crollato, che c’erano stati solo otto morti. Ed è per questo che ha deciso di andare sull’isola. Perchè il suo piano era preciso, dettagliato: la strage». La smorfia diventa di delusione quando la Corte smonta i suoi Cavalieri Templari, il suo esercito inesistente. «Non sono state trovate prove dell’esistenza di questa organizzazione. L’unico responsabile è lui, Anders Breivik».
Che non chiede l’appello, «perchè vorrebbe dire riconoscere la legittimità di questa Corte». E siccome non lo chiedono nemmeno i pm, che invocavano la pazzia, il caso è chiuso. Trond Blattmann, il coordinatore del Comitato 22 luglio, i parenti delle vittime e i sopravvissuti, è sicuro sulla sorte di Breivik: «È stata una sentenza all’unanimità, senza un dubbio. La Norvegia ha regolato i conti con un massacratore, non con un pazzo. Che, vedrete, resterà in carcere tutta la vita...».